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Frammenti in cerca di voce: Danilo Ruggero e la bellezza dell’incompiuto

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Danilo Ruggero Danilo Ruggero

Non tutte le storie devono tornare. Alcune restano aperte, spezzate, ma proprio per questo autentiche. Con Puzzle, Danilo Ruggero compone un EP che non vuole ricucire, ma sostare nel punto della rottura. Ogni canzone è un frammento che si basta, una fenditura che non cerca rimedi, ma verità. In questo dialogo profondo e vibrante, Danilo ci accompagna tra dubbi, ferite, voci incrinate e pagine mai chiuse. E ci mostra che non sempre serve capirsi, per potersi accogliere.

 

“Puzzle” è un EP che sembra non voler ricomporre, ma sostare nel frammento. Come nasce questa scelta narrativa e sonora?
La verità, infatti, è che non avevo alcuna intenzione di “ricomporre”. Non credo nelle ricostruzioni forzate, nelle sintesi premature, nelle morali obbligate e vantaggiose a fine storia. “Puzzle” nasce proprio dal bisogno di restare dentro a ogni piccola crepa, senza l’ansia di dover risistemare tutto, di osservare i pezzi uno per uno, fare la conta di quelli che mancano, o di quelli da scartare perché hanno cambiato forma e non si incastrano più con il resto. A livello sonoro e narrativo ho scelto di assecondare la stessa logica: ogni brano ha un suo respiro, una sua densità, una sua capacità di vivere ed esprimere un concetto anche da solo. Esiste un filo conduttore tra di essi, ma non c’è un vero climax e non c’è redenzione; c’è una mappa emotiva spezzata, attraversata da parole e vuoti con vari livelli di tensione e forse l’onestà più grande sta proprio lì: nell’ammettere che non sempre si arriva da qualche parte, che non sempre serve ricomporsi per interi e che “stare” nel dolore, senza appigli, dà modo di accogliere l’angoscia come rivelazione del proprio essere autentico.  Era Kierkegaard che sosteneva che il dolore può essere abitato senza volerlo superare, come passaggio necessario alla verità di sé e che nel dolore vi è una possibilità di espanderci, di scoprire sin dove possiamo arrivare con i nostri confini. Credo, forse, di essere un po’ esistenzialista, a questo punto.

Hai parlato di “radici che tirano e rami che cedono”. Che tipo di equilibrio cerchi oggi, nella scrittura e nella vita?
Credo che oggi il mio equilibrio non stia tanto nella stabilità, quanto nella capacità di restare sempre nel dubbio, senza il timore di esserne perennemente schiacciato. Amo farmi domande, cambiare idea, non avere mai grosse certezze ed è per questo che parlo di radici che tirano e rami che cedono. Cerco quella costante tensione fra radicamento e slancio, tra la ricerca di stabilità e l’accoglienza del dubbio. C’è in me questa eterna dicotomia: le radici rappresentano ciò che resta, che trattiene. L’infanzia, il passato – con la sua consueta ruminazione – la casa, gli affetti, la famiglia o le amicizie più longeve, che rappresentano comunque le mie sicurezze. I rami sono quella parte di me che cerca, sperimenta, sbaglia, che punta più in alto, si allontana e perde la rotta. In mezzo ci sono e voglio starci io, in bilico tra la tensione che ti riporta indietro e quella che ti costringe ad andare avanti. Come provo a raccontare con il primo brano dell’EP, Sapone, la scrittura mi aiuta a tenere insieme queste due spinte opposte. Il mio diario, le mie canzoni, sono lo spazio in cui le mie contraddizioni possono convivere, in cui non devo scegliere chi essere perché mi basta accettare che posso essere molte cose, anche contraddittorie, anche incoerenti. Dunque, per quanto io stia provando a trovare un equilibrio nella mia vita personale e lavorativa, artisticamente non cerco equilibrio, sarebbe totalmente deleterio e paralizzante. Piuttosto, cerco un po’ di caos da riordinare piano piano, scrivendo, analizzando, comprendendo.

Il brano “Puzzle” ha anche una versione alternativa. Perché hai deciso di affiancare due letture della stessa canzone?
Forse la vera motivazione è che ho ascoltato 𝐏𝐮𝐳𝐳𝐥𝐞 in quella veste fatta in casa – diventata poi la versione alternativa – per così tanto tempo, che non ho trovato il coraggio di separarmene e di lasciarla marcire dentro un link SoundCloud privato per gli addetti ai lavori. Ho deciso di inserirla come ultima traccia dell’EP perché sento che c’è dentro quel qualcosa che manca all’altra versione originale — e viceversa. Nessuna delle due, da sola, raccontava tutto. Insieme riescono a dare un’immagine veritiera della complessità e della fragilità del momento in cui ho composto il brano e restituire il cortocircuito emotivo che volevo raccontare. La coesistenza di due versioni nasce quindi non da un vezzo, ma da un’urgenza autentica di rendere tutto più sincero anche facendo riascoltare e percepire gli errori o le imprecisioni di una versione demo fatta nella fretta e nell’euforia compositiva originale.

Danilo Ruggero - Puzzle

Danilo Ruggero – Puzzle

C’è una traccia dell’EP che per te è stata particolarmente difficile da scrivere o da cantare?
Così, di primo acchito, mi verrebbe da risponderti Dagli Alberi, perché il nodo che mi serra la gola e mi fa commuovere quando, ancora adesso, canto dal vivo quei versi: […] mentre davo del mio meglio per non essere capito, mi lamentavo allo stesso tempo di essere frainteso, e mentre io lo deludevo sempre, lui (mio padre) non mi deludeva mai, come fanno gli eroi […] è reale, sincero, ed ha la stessa forza che aveva quattro anni fa, quando li ho scritti. Però, a pensarci bene con più coscienza, ti dico che è stata Puzzle la canzone più complicata da scrivere e da cantare. Senza dubbio. Non solo per il contenuto, ma per il modo in cui l’ho affrontato. È un brano che non fa sconti nemmeno a me. C’è dentro la voce che ti sveglia alle tre di notte e ti ricorda cosa hai perso, le promesse disattese, le parole mai dette. È un dialogo interiore senza filtri, senza mediazioni. A volte è accusa, a volte è resa. La terza strofa: […] È stata lei (la vita) che ti ha violentato? Oppure sei tu che le hai promesso un obiettivo complicato? Orecchie tese ad ascoltar parole che hai scritto di notte senza respirare e quindi un cazzo di niente per chiunque. Tranne che per il tuo ego enorme – è nata quasi in trance, come se qualcuno me l’avesse dettata. Lì non c’è nessuna metafora. Solo crepe, solo verità. E cantarla – anche solo in casa, in solitaria o alle prove – richiede sempre un certo respiro, non solo fisico ma anche emotivo, perché mi pone davanti a una realtà scomodissima, che ho avuto difficoltà ad accettare. Puzzle l’ho compresa solo adesso, riscoltandola dopo l’uscita. Io sono davvero un puzzle che non si può finire. Starò sempre lì a rimescolare i pezzi, a farmi e disfarmi di continuo. Forse come tutti, in fondo. È un brano che non invecchierà mai e mi farà sempre lo stesso effetto.

Il tuo rapporto con la voce: è più confessione o più rifugio?
La mia voce in ambito musicale/artistico è forse entrambe le cose a seconda dei suoi specifici momenti d’impiego. Credo sia più un rifugio quando compongo, cerco le melodie e le note giuste per accompagnare le mie parole ancora incerte. Mi cullo e mi proteggo in questa fase primordiale, mentre diventa confessione quando quella voce viene usata davanti a qualcuno che la sta ascoltando, quando la uso per cantare le mie canzoni a squarciagola. Anche solo concettualmente credo abbia senso: quella voce in ricerca, in ambito di studio e di costruzione, diventa poi confessione quando usata con sicurezza dopo aver trovato che giri, ghirigori, salite e discese farle fare. Ho imparato malamente a usare la voce per restituire quelle sfumature che con le parole scritte non riuscivo a restituire. Ogni incrinatura, ogni incertezza nel timbro, ogni esitazione hanno un senso anche quando non sono volute o ricercate perché in qualche modo sono influenzate dall’emotività di quell’istante. La voce che esiste solo nell’istante in cui si attivano le corde vocali, credo sia una forma di verità e, come ogni verità, non sempre è bella o musicale. A volte è storta, ruvida, ma necessaria perché traspone all’esterno quello che c’è all’interno, senza alcun filtro o costruzione. Almeno la mia, da sempre poco allenata, credo faccia così.

Qual è l’ultima crepa che hai imparato ad accogliere?
Con coerenza verso questo mio concept Ep uscito da poco, credo che l’ultima crepa che ho imparato ad accogliere è questa mia incapacità di rimettere insieme tutto e la strana pace che arriva quando ti convinci che forse non serve neanche più. Che puoi camminare anche senza essere intero, che puoi amarti e andarti bene anche senza capire tutto. E che, a volte, restare in piedi – pur sgangherato – è già di per sé una forma di resistenza, di rivalsa e, in qualche modo, di cambiamento, di rivoluzione, quantomeno, intanto, interiore.

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