Album
Limarra: un canto di radici e orizzonti. Intervista.
Limarra, cantautore e voce sospesa tra il mare e la città, si muove da sempre in bilico tra radici e orizzonti. La sua scrittura, fragile e potente insieme, nasce dall’urgenza di dire e dal coraggio di restare in ascolto. Come nel nuovo album dal titolo ‘Cosa resterà’. In questa chiacchierata, emerge la sua ricerca costante di equilibrio: tra il battito del cuore e la luce incerta delle lanterne, tra la memoria e la vertigine. Un incontro con chi sceglie la delicatezza come atto rivoluzionario.
Nei tuoi brani sembra esserci una tensione costante tra l’istinto e il pensiero, tra ciò che emerge di getto e ciò che resta dopo una lunga riflessione. Quando scrivi, ti lasci guidare più dall’urgenza emotiva o da un processo lento e meditativo?
Scrivere, per me, è come entrare in una stanza buia guidato solo dal battito del cuore e da una lanterna fioca. C’è sempre un inizio che brucia — una frase che mi salta addosso, una melodia che mi viene a trovare nel dormiveglia, un’immagine che graffia. È l’istinto, la scintilla che accende il fuoco. Ma poi resto lì, a vegliare quelle braci, a soffiarci sopra piano, finché non diventano forma, direzione, respiro. Alcuni brani nascono come sogni che non vogliono svegliarsi — prendono forma in pochi minuti, come se qualcuno me li sussurrasse da un’altra stanza. Altri invece li coltivo piano, come semi che aspettano la stagione giusta per germogliare. Nel mio scrivere c’è sempre una danza tra l’urgenza e la quiete, tra il dire tutto e il custodire. L’istinto mi apre la porta, la riflessione mi insegna ad abitare quello spazio. E così ogni canzone diventa un gesto d’amore verso il tempo, quello che corre e quello che resta.
In “Cosa Resterà” convivono ritmiche moderne e una forte radice mediterranea. Quanto è stato difficile trovare una sintesi sonora che fosse fedele al tuo percorso, ma capace di spiazzare chi ti conosceva già?
Trovare quella sintesi è stato come accordare una conchiglia al ritmo dell’elettricità.
Volevo che ‘Cosa Resterà’ avesse il sapore del sale sulla pelle e il battito instabile delle città che non dormono mai. Volevo che dentro ci fosse il tamburo antico delle processioni, ma anche il battito sincopato delle melodie metropolitane e le mani della gente Sud sulle corde di ferro della chitarra. È stato un cammino a piedi nudi sui fili dell’alta tensione: da una parte la memoria, dall’altra la vertigine. Ho dovuto imparare a non temere lo spiazzamento, a tradire la forma per restare fedele all’urgenza. La radice mediterranea non è una scelta: è una madre che canta sottovoce anche quando cerchi il silenzio. Le ritmiche moderne sono state invece una fuga in avanti, un salto nel vuoto con gli occhi chiusi e il cuore aperto. Ciò che cercavo non era una somma, ma una frizione, qualcosa che suonasse come un ritorno mai avvenuto, o come un addio che vibra ancora nelle ossa. E alla fine, credo, è successo: mi sono perso nel mio stesso suono, e nel farlo mi sono ritrovato più vero.
“Abbi cura” è un titolo semplice, quasi disarmante. Hai mai avuto paura che la sua apparente delicatezza potesse far perdere forza al messaggio che volevi trasmettere?
No, non ho avuto paura. ‘Abbi cura’ è arrivata come arrivano le cose vere: in punta di piedi, ma con il cuore pieno. Una frase piccola, come quelle che si sussurrano quando non si ha più fiato per gridare e, proprio per questo, potentissima. Viviamo in un tempo che confonde il rumore con la verità, la forza con la durezza, ma io credo nella delicatezza come atto rivoluzionario, nell’amore che resta anche quando tutto spinge ad andarsene, nel gesto lieve che salva una giornata, una pelle, una vita. ‘Abbi cura’ non è un consiglio, è una preghiera laica, un’eco di mani intrecciate, un filo che tiene insieme le crepe, non ha bisogno di spiegarsi, né di farsi largo: si posa, semplicemente e resta.
C’è una frase o un’immagine, anche non tua, che hai tenuto in mente durante la scrittura di questo album? Una sorta di bussola invisibile.
Sì, durante la scrittura dell’album c’è stata una frase che mi ha accompagnato come una specie di bussola silenziosa. Non è mia, ma è come se lo fosse diventata col tempo. È di Chandra Livia Candiani e dice: “La gentilezza è il modo più coraggioso di stare al mondo.” L’ho tenuta dentro come si tiene una cosa preziosa che non si vuole spiegare troppo. Mi ha aiutato a non forzare, a restare fedele a una scrittura che non cercasse di impressionare, ma di toccare, a ricordarmi che si può essere intensi senza urlare, e che certe parole – se dette con cura – arrivano più lontano di quelle gridate. Poi, mentre scrivevo, c’erano anche delle immagini che tornavano, senza che le chiamassi: una finestra aperta su un mare agitato, un viso che sorride mentre piange, una pianta che cresce tra le crepe del cemento. Non erano idee da sviluppare, ma presenze. Restavano lì, mi guardavano, e io cercavo di non farle scappare. Credo che ogni disco abbia bisogno di una sua bussola invisibile e la mia è stata quella frase e tutto ciò che le ruotava attorno. Mi ha aiutato a non perdermi nel suono, a non lasciarmi distrarre dalla voglia di “dire troppo”, a fidarmi del silenzio e della semplicità.
Hai rivisitato “Povera Patria” con grande rispetto, ma anche con uno sguardo nuovo. Se potessi rivisitare oggi un tuo brano passato, quale sceglieresti? E cosa cambieresti?
Riascoltando i miei brani, ce n’è uno che ogni tanto torna a bussare, ed è La Resa (“Riconoscersi” – 2023). Ogni volta che lo sento, mi sembra di guardare una vecchia foto di me stesso: riconoscibile, ma lontana. Se potessi riabbracciarlo oggi, non cambierei tutto ma sicuramente ne cambierei l’esito, la sua risoluzione. Gli darei più spazio, più silenzio tra le parole e (forse) cambierei l’intenzione vocale.
Lavorare con Tony Canto ha dato una direzione chiara alla produzione dell’album. Qual è stato il momento in cui hai capito che stava nascendo qualcosa di importante, non solo dal punto di vista musicale ma anche umano?
Lavorare con Tony è stato come trovarsi in una stanza che sentivo già familiare, ma che solo insieme a lui ho imparato a illuminare. All’inizio, era come una danza silenziosa, fatta di gesti che non richiedono spiegazioni, di sguardi che dicono più delle parole.
Ma il momento in cui ho capito che stava nascendo qualcosa di realmente importante, umano, è arrivato piano, quasi impercettibilmente. Era una sensazione che cresceva dentro durante le sessioni: non era solo la musica a prendere forma, ma anche un legame profondo, qualcosa che trascendeva la produzione. Non eravamo più solo due persone che cercavano di creare qualcosa, ma due esseri che cercavano di restituire una parte di sé attraverso quella musica. Tony ha un’arte rara: sa essere presente senza invadere, sa ascoltare con la stessa intensità con cui suona. In quei momenti, è come se non fossimo più separati da un ruolo o da una funzione, ma diventati uno stesso respiro, una stessa ricerca. È lì ho capito che non stavamo solo facendo un disco, stavamo raccontando una storia più grande — quella di chi siamo, di come ci incontriamo e ci riconosciamo nel suono.
Non è stato solo il processo musicale a prendere il volo, ma anche quello umano, e quando la musica ti fa sentire che non c’è divisione tra ciò che fai e ciò chi sei, allora sai che sta nascendo qualcosa che va oltre il tempo e le parole.
Se dovessi descrivere “Abbi Cura” non come un brano, ma come un gesto fisico o quotidiano – cosa sarebbe? Un respiro? Un passo? Un abbraccio?
Direi che sarebbe un abbraccio, non il tipo di abbraccio che arriva in un istante, impetuoso, a voler conquistare tutto, sarebbe piuttosto un abbraccio lento, che comincia come un respiro, come quando ci si avvicina con cautela, senza fretta, e si offre il proprio corpo come una promessa di presenza, senza forzature. Un abbraccio che non chiede di essere forte, ma di essere vero. Un gesto che sa fermarsi nel momento giusto, che non ti avvolge mai completamente, ma ti tiene in sospeso, come una carezza che non è mai finita, ma sempre in corso. ‘Abbi Cura’ è un respiro, quello che scivola dentro e fuori, che si espande senza fretta, senza voler occupare troppo spazio, ma riempiendolo comunque. È un passo, quello che avviene senza calpestare, come quando cammini su una strada che conosci ma che sai che è sempre diversa, ogni volta che la percorri. È un tocco leggero ma profondo, come una mano che sfiora una pelle, ma sa di esserci senza chiedere nulla in cambio.