Recensioni
IYV – Blacktar: la dipendenza che graffia l’anima

Dall’inferno non si esce camminando. Si striscia. Blacktar lo dimostra, con una narrazione ossessiva, scorticata e disturbata, figlia di una dipendenza vissuta come rifugio e condanna. Gli IYV costruiscono un concept che è più diario clinico che album, dove la voce graffiante e le chitarre in drop D si fanno colonne di un mondo che implode. C’è un’urgenza sonora che non concede pause, una tensione che si incarna in brani come To the Tightness o My words are not enough, dove il suono diventa veicolo di disagio e desiderio. Il mix tra grunge, post-hardcore e derive industriali restituisce un mondo claustrofobico e senza luce. Eppure, Blacktar non è un lavoro oscuro per il gusto di esserlo. È un disco necessario. Un rumore che resta addosso.
La copertina di Blacktar è ricchissima di simboli: da dove nasce quell’immaginario?
È nato un po’ come tutto il disco da idee, sogni, spunti, frammenti raccolti. Ad un certo punto ha preso una forma meno sfocata, più concreta. Sono stati fatti molti tentativi per arrivare a quel risultato ma quando è stato individuato è subito diventata la strada giusta da portare avanti e completare. Quell’immagine astratta rappresenta in buona parte i significati che stanno dietro ai contenuti del disco. Avremo potuto fare una foto di qualcosa che ci piaceva ma non sarebbe stata la scelta giusta.
Quanto è importante per voi l’aspetto visivo nel trasmettere un messaggio musicale?
L’aspetto visivo è potenzialmente importante perché ha il potere di raccontare una storia in tempi decisamente più rapidi rispetto alla musica o alle semplici parole. È forse il mezzo più incisivo perché arriva direttamente all’inconscio di chi guarda. Se abbinato correttamente alla musica, può creare un impatto fortissimo, trasmettendo in modo estremamente efficace un’idea, un concept o un messaggio. Tuttavia rifletto sull’immediatezza del visivo come motivo del dove ci troviamo oggi: siamo letteralmente sovrastati dall’immagine, al punto che ne diventeremo anestetizzati, se già non lo siamo. Questo é un problema serio, chi cerca attenzione e popolarità spinge sempre più in là il limite e spesso non lo fa per trasmettere messaggi autentici o utili alla comunità, ma semplicemente per vendere sé stesso o un prodotto. Il risultato è una gara continua a chi urla di più. Urla che non fanno scorgere cose più silenziose e a volte più meritevoli e che a lungo andare ci renderanno completamente sordi. C’è bisogno di tanta arte, quella vera.
Il cristallo, i fili, la matita: come avete scelto questi elementi e cosa rappresentano per voi oggi?
Oggi quegli elementi rappresentano gli stessi concetti che avevano quando sono stati ideati, o meglio, quando la storia di Blacktar li ha ispirati. Riguardarli e ristudiarli attentamente, con il senno di poi, ha un grande effetto nostalgico su come e perché siano nati e cresciuti in quel modo e in quella forma, e fa riflettere. È il grande reminder di una storia.
Avete mai pensato di tradurre il disco in un progetto video o multimediale?
Abbiamo considerato varie idee, tra cui realizzare un cortometraggio suddiviso in 11 capitoli, dove ogni episodio sarebbe stato il video di una canzone di Blacktar. Questo avrebbe permesso di seguire in modo più fluido la narrazione dell’album, cogliendo i collegamenti tra i brani e la storia nel suo insieme. Sarebbe stato interessante, sicuramente avrebbe arricchito l’esperienza del disco.
Pensate che un ascoltatore riesca a cogliere i simbolismi anche senza spiegazioni?
Credo, e lo dico con la massima umiltà, sia un po’ come guardare un film di David Lynch e pretendere di capirlo completamente alla prima visione. Probabilmente non si riescono a cogliere tutti i significati e i dettagli, alcuni dei quali estremamente personali, nemmeno dopo cento volte. Il punto però non è comprendere ogni singolo aspetto voluto dal regista, bensì restarne affascinati al punto da trarne un significato personale. È questa, secondo me, la vera forza di un simbolo.